giovedì 9 marzo 2023

FOCUS – Il 2022 anno nero per i suicidi nelle carceri italiane, intervista alla criminologa Linda Corsaletti


FOCUS – Il 2022 anno nero per i suicidi nelle carceri italiane, intervista alla criminologa Linda Corsaletti

 

Nelle carceri italiane nel 2022 si sono suicidate 84 persone, di cui 78 uomini e 5 donne e le donne rappresentano il 5% delle persone detenute nelle carceri. Una cifra drammatica che evidenzia i problemi del sistema carcerario.

Mai così tanti suicidi nelle carceri, è il numero più alto registrato in Italia dal 2000, da quando i dati sono stati resi disponibili a livello nazionale. Dieci anni fa, quando la popolazione carceraria era più numerosa (66.5278 contro 54.841) si suicidarono 60 detenuti, 24 in meno rispetto all’anno scorso.

Perché un numero così elevato di suicidi? Cosa può fare lo Stato? Di seguito un’interessante intervista alla criminologa Linda Corsaletti.

 

Il 2022 è stato l’anno con il maggior tasso di suicidi in carcere, purtroppo 84. Perché tutti questi suicidi?

Il fenomeno suicidario in ambito carcerario è un problema serio e da sempre mal affrontato e nonostante rappresenti un’emergenza passa in subordine rispetto ad altre problematiche sociali. La popolazione carceraria è ad alto rischio suicidario per diversi motivi, il primo tra tutti è che nel momento in cui si entra in carcere tra i detenuti non troviamo solo il soggetto recidivo sprezzante della legge o il criminale incallito, ma anche chi è affetto da patologie psichiatriche, colui che è dipendente da sostanze stupefacenti o psicotrope e alcol, soggetti con sindromi iper sessuali e parafilie, sono coloro che più di altri cadono nella cosiddetta sindrome del carcerato o prisonizzazione che porta il soggetto ad una lenta erosione dell’individualità e a una forte regressione. Ci sono inoltre le madri detenute e questo rappresenta un dramma. Non si risolve né se i bambini rimangono con loro costretti a loro volta a crescere ingiustamente in un contesto carcerario, né se i figli vengono affidati a terzi fuori dall’istituto. Tutto questo alza tantissimo il rischio di un’ideazione di tipo suicidario. Inoltre la capacità di stare in carcere non è affatto scontata. I luoghi di detenzione sono peraltro considerati come il pattume della società, più che un luogo dove scontare la pena e rendere effettivamente possibile un reinserimento sociale e lavorativo, perciò questo abbassa nel detenuto o nella detenuta l’aspettativa di una vita regolare, che garantisca una dignità una volta fuori dal contesto carcerario pari a quella del cittadino incensurato, libero.

Riguardo a questo concetto è paradigmatica la nota citazione di Victor Hugo il quale ne ‘I miserabili’ recita:” La liberazione non è libertà, si esce dal carcere e non dalla condanna “.

L’ex detenuto per la società che non è pronta ad accoglierlo, rimane tale, perché l’onda sociale macchia irrimediabilmente la sua identità. Un percorso psicologico e psicoterapico è fondamentale anche perché aiuta il detenuto ad affrontare le problematiche non solo all’interno, ma che inevitabilmente troverà anche fuori dall’istituto penitenziario. Chi entra in carcere va incontro a solitudine, privazione degli affetti oltre che della libertà, a giornate tutte uguali fortemente ritualizzate, tutto è sempre uguale, depersonalizzante e ciò porta a un progressivo deterioramento mentale, dovuto alla privazione di stimoli o al perdere di vista nuovi orizzonti perché cancellati dalla visione quotidiana delle mura, ciò conduce il soggetto a perdere la capacità di ridefinirsi. La vita è sospesa, bloccata, ma il dolore mentale no, ciò porta i soggetti più fragili a scegliere una fuga dalla vita per evadere da questo dolore mentale che li imprigiona più delle sbarre.

Le parole del cappellano di un carcere, in seguito al suicidio di un ventenne, mi hanno lasciata basita: “Era un detenuto molto fragile. Me lo avevano segnalato gli agenti di polizia penitenziaria e gli avevo parlato. Purtroppo non è stato sufficiente”. Perché lo Stato non garantisce assistenza psicologica?

Il problema principale del carcere è proprio questo oltre al sacerdote, servono figure professionali specializzate che garantiscano la differenziazione dei trattamenti sanitari a seconda delle esigenze del detenuto. Come dicevo prima molti soggetti condannati a una pena detentiva presentano già al loro ingresso i sintomi di una malattia mentale ed altri invece possono accusare sintomi di malessere psicologico durante il corso della detenzione. Il suicidio è un fenomeno complesso e multi casuale e nella popolazione carceraria rappresenta la prima causa di morte. Un fattore di rischio per gli agiti suicidari è considerato l’essere in attesa di un giudizio e l’incertezza della condanna, unito al trauma della reclusione, incide fortemente nella creazione di forti stati d’ansia, soprattutto nei nuovi giunti ovvero di coloro fanno il loro ingresso all’interno dell’istituto penale o sono alla prima esperienza detentiva ed è soprattutto qui che la figura dello psicologo penitenziario diventa prioritaria e di completamento al personale del carcere, in particolare parlo di agenti penitenziari, operatori, educatori, mediatori culturali, criminologi, insegnanti e operatori sanitari.

Il sovraffollamento, gli spazi troppo piccoli, le scarse condizioni igieniche, la carenza di personale penitenziario, in che modo possono incidere questi fattori?

C’è’ anche da dire che la maggior parte degli istituti carcerari sono fatiscenti e maltenuti. Per quanto riguarda le condizioni igieniche qualora ci fosse negligenza della pulizia e dell’ordine della persona e della cella l’ordinamento penitenziario prevede per i detenuti e gli internati sanzioni e ammonizioni, ma nonostante ciò la precarietà delle condizioni igieniche rimane unita al sovraffollamento, alla totale mancanza di privacy, abbassa le condizioni umane basilari di sopravvivenza. Quindi in parte incide. Inoltre la carenza di personale penitenziario non rende facile il controllo dei detenuti o il captare immediato di comportamenti a rischio o situazioni di disagio.

Dopo la pandemia chi entra in carcere è ancora più fragile di quanto non avvenisse in passato?

L’emergenza epidemiologica ha colpito tantissimo il mondo carcerario e in questo il sovraffollamento non ha aiutato e il sistema penitenziario ha corso il forte rischio di diventare un moltiplicatore della curva del contagio. La pandemia è stato un fenomeno nuovo e destabilizzare per tutti, nessuno ne è uscito psicologicamente illeso, figuriamoci chi recluso ci era già è non ha potuto ricevere più neanche le visite dei famigliari. Ciò ha comportato un aumento delle frustrazioni, ulteriori deprivazioni e diritti sospesi. L’esigenza di contenimento del virus, indubbiamente, ha fatto passare in secondo piano i diritti dei detenuti portandoli a “inasprimenti” improvvisi della condanna, infatti sotto molti profili l’emergenza Coronavirus ha enfatizzato le molteplici carenze degli istituiti di pena a partire dalla persistente mancanza di tempestivo intervento di risposta a una patologia psichiatrica insorta o maturata durante la detenzione, tempestivo tanto quanto accade invece per quelle fisiche.

Quali possono essere possibili interventi per eliminare il disagio detentivo?

Le condotte autolesioniste quali lo sciopero della fame, i ferimenti auto inflitti, rappresentano una forma di protesta e quindi una manifestazione di malessere. Sono una richiesta di aiuto così come i tentativi di suicidio. Sono campanelli di allarme che devono far riflettere sul fatto che qualcosa all’interno dell’istituto penitenziario non sta funzionando. I condannati e gli internati devono essere sottoposti a una continua valutazione delle loro condizioni mentali e psicotiche. Ciò è fondamentale per un intervento tempestivo, che diventa necessario soprattutto dopo che il detenuto è stato sottoposto a un periodo di isolamento. Al di là del presidio psicologico è utile impegnare il detenuto in attività come laboratori, attività di studio o lavorative qualora sia possibile, per alleviare il disagio dovuto alla quotidianità. Formare il detenuto, dargli la possibilità di impiegare il tempo in qualcosa di utile non solo contribuisce a dargli la possibilità di imparare un mestiere e acquisire competenze spendibili una volta fuori, ma è una forma di prevenzione perché permette all’individuo di avere un’occasione di riscatto sociale, di non sentirsi totalmente emarginato, permettendogli di guardare al futuro.

Anna Ammanniti 


 

 

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